Luca Alessandro: “Soltanto la passione ci fa andare avanti e serve un pizzico di follia”.

Luca Alessandro è un giovane regista romano. La sua voce è tonda, quasi vellutata e per niente noiosa. La voce che poteva avere Ulisse, capace di farsi attendere da Penelope, stregare la maga Circe e poi tornare a menare fendenti sui Proci. Ma invece della spada lui ha scelto di sferrare i colpi con la macchina da presa. Attualmente ha appena terminato le riprese di un nuovo corto ed è impegnato nella promozione del suo secondo lungometraggio “E.N.D. – THE MOVIE”, dall’omonimo cortometraggio del 2011 da cui prende spunto.
Noi di CrunchEd, si sa, siamo curiosi e per questo abbiamo scambiato con lui quattro chiacchiere.

Luca, raccontaci di quando hai visto la luce e spiegaci il momento in cui hai scoperto la tua vocazione. In altre parole, parlaci di quando hai capito che il cinema (e la regia) sarebbe stato la tua grande passione.
La mia passione comincia in tenera età, quando mia sorella si divertiva a spaventarmi durante lo show televisivo di Zio Tibia. Anche se gli horror mi facevano paura, non potevo fare a meno di guardarli, e più ne vedevo, più le mie paure venivano per così dire “esorcizzate”. Un aspetto che ho scoperto essere comune a molti attori e registi. Attraversai anche la fase del collezionista feticista di videocassette e DVD, finché un giorno non avvertii la curiosità-necessità di stare dall’altra parte dello schermo. Coinvolsi il mio migliore amico Cristiano (con cui avevo già tentato la strada della musica) e ci iscrivemmo ad un corso di cinema.

E come andò? Fu una bella esperienza?
Terribile. L’esperienza fu di quelle che “tagliano le gambe”: gente interessata soltanto a spillare soldi, non imparai niente. La mia fortuna fu poi quella di trovare una scuola seria, il CineTeatro di Roma. Sviluppai da subito un bel rapporto con il docente, Federico Greco, che continua ancora oggi. Le mie basi le devo a lui.

Perché hai iniziato con l’horror? Era una tua esigenza, il naturale sbocco della tua vocazione o è stata una scelta casuale, dovuta ad un’opportunità che si è presentata?
Proprio quando stavo per interessarmi ad altri generi cinematografici arrivò la chiamata di Visani che mi propose di partecipare al progetto The Pyramid. Fu una sorta di richiamo alle origini. Inoltre, l’intero film era un omaggio al cinema di Fabio Salerno, cineasta scomparso prematuramente e di cui avevo collezionato diverse cose (per lo più super8). Quindi, per certi aspetti, non sarebbe sbagliato parlare di opportunità, soprattutto se consideriamo che nel mio primo lavoro professionale, E.N.D. , l’orrore era – già – soltanto un pretesto, il grimaldello per far scattare vecchie paure e spingere i tre personaggi principali per la prima volta a collaborare. Per chi non l’ha visto, penso sia stato e sia tuttora il primo esempio di zombie movie dove non si vede il becco di uno zombie!

Perché proprio il cinema e non la fotografia, la pittura, la scrittura? Cos’ha in più la settima arte?
Da piccolo mi piaceva molto disegnare, iniziai con la carta carbone che papà mi portava dall’ufficio. Poi inventavo storie a non finire con i miei giocattoli, ad esempio relazioni sentimentali improbabili tra i Ghostbusters e le Barbie di mia sorella, che erano alte il doppio. Durante le scuole medie dimostrai una spiccata propensione per la matematica, probabilmente legata al mio essere introverso, così venni iscritto al liceo scientifico. Ricordo che scrivevo temi tanto sintetici fino a quando il metodo di insegnamento “alternativo” del mio professore di filosofia (attraverso diagrammi) mi avvicinò alla materia. Da lì cominciai a leggere saggi, scrivere poesie e, durante gli studi universitari di Scienze Politiche, compravo quotidiani di ogni colore e partito. Tuttavia, l’interesse per la politica inevitabilmente scemò e mi feci “contaminare” dalla narrativa, consigliata oppure guidata dall’istinto del momento.

Ma l’estro artistico sembra ancora lontano…
Non troppo. Negli anni dell’adolescenza tentai di imparare a suonare la chitarra, anche se poi scoprii di avere le dita troppo piccole. Poi presi lezioni di canto, che considero la valvola di sfogo più diretta. Promettevo bene, eh!

Ecco! Abbiamo scoperto il motivo della tua voce così rassicurante!
Può essere, ma ho anche un passato da judoka. Oggi rimpiango di aver smesso, questo sport mi ha dato tantissimo in termini di disciplina. Forse la passione verso le riprese è nato durante i viaggi in famiglia: quando ero più piccino facevo il dispettoso con mio padre, o mia madre che riprendevano con la videocamera. Ovunque si spostava l’ inquadratura, c’ero sempre io di mezzo. Tutto questo per dire che stavo cercando il “mio” modo di esprimermi.

A quanto pare nel cinema hai trovato la completezza.
Sì. Il cinema, raccogliendo in sé un po’ tutte queste cose, permette rispetto ad altre forme d’arte di vivere un’esperienza a tutto tondo molto più “coinvolgente” in cui ci si sente una sorta di deus ex machina e si sperimenta l’atto e l’emozione della creazione (prerogativa femminile): il prodotto di tale gesto, il film, costituisce infatti un unicum irripetibile che gode di vita propria. Proprio come un figlio.

Tutti abbiamo dei modelli, dei maestri, magari anche inconsapevolmente. Degli spiriti guida che per un tratto di tempo ci hanno fornito ispirazione, voglia, determinazione. Tu ne hai avuti?
Sicuramente ho subito il fascino di diverse pellicole ma, oltre a queste, il mio lavoro è stato influenzato anche da altre forme d’arte, ad esempio la pittura. Il mio ultimo film prende molti spunti dai quadri di Tamara de Lempicka. Più in generale osservo molto la realtà che mi circonda, ritengo sia l’aspetto più importante del lavoro di un regista. Preferisco guardare con i miei occhi però, fare anche rischiando di sbagliare, invece di imitare gli altri.

Mi sembra che invece di imitare tu collabori molto, o sbaglio?
Sì, ritengo la collaborazione un valore aggiunto, un completamento indispensabile ai fini della crescita individuale.

Il tuo ultimo cortometraggio, “Questione di Sguardi”, si discosta dal genere horror dei tuoi inizi. Si tratta di una nuova strada o di una parentesi?
Questione di Sguardi rappresenta in pieno il mio modo di fare cinema, è da qui che vado avanti. Infatti, il mio ultimo lavoro Mamma Racconta è perfettamente in linea. Rispetto al predecessore ho soltanto “aggiustato il tiro” per riuscire a farmi comprendere meglio nel circuito dei festival. L’horror però, come colore (per dirla alla Almodóvar), sarà sempre una costante dei miei lavori, l’horror psicologico per intenderci. Mi vengono in mente film come Eraserhead, Dead Man’s Shoes, Martyrs o i recenti Babadook e Somnia dove dramma e orrore diventano un tutt’uno. E lì non ce n’è per nessuno, esci completamente devastato dalla visione. Se facciamo invece un discorso più generale, non mi piace limitarmi soltanto ad un genere, ridurre tutto in categorie, classificare. La vita reale è una girandola di emozioni e contiene tutti i generi. Quindi “perché non giochiamo facendoci guidare dall’istinto”? E qui cito Lynch.

Sappiamo che è in fase di post produzione il tuo ultimo lavoro. Puoi darci qualche anticipazione?
Sì, Mamma Racconta lo considero per certi versi l’evoluzione naturale di Questione di Sguardi: permane il tema dell’ossessione ma lo sviluppo è meno umorale del suo predecessore. La linearità della storia però non ne intacca affatto la personalità, che ritengo essere uno dei punti di forza di questo lavoro. Parentesi personale: dopo aver lavorato all’interno di un’agenzia di pompe funebri (ricorderete E.N.D.) e ora in un cimitero (quello di Patrica, nella provincia di Frosinone) posso dire di aver definitivamente sconfitto una paura, o meglio, sfatato un tabù che mi portavo dietro da quando ero ragazzino. E poi c’è qualcosa di magico che aleggia sul film: l’incontro con l’attrice Federica Flavoni, perché il suo vissuto presenta diverse analogie con la storia di Emma, la protagonista… una coincidenza?

Ci puoi accennare la trama?
Brevemente: sopravvivere alla morte di un figlio è la tragedia più grande che possa colpire la vita di una persona. Emma, la protagonista del film, prova a riflettere sull’esperienza che sta vivendo. Lo fa attraverso le pagine di un diario, regalo del figlio, mettendo in atto inconsapevolmente una sorta di autoterapia. Ma il buco nero che resta dentro scava ininterrottamente. Da un corpo pieno di vita la donna passa a un corpo vuoto, il suo grembo e le sue braccia si ritrovano ormai senza più nessuno da accudire.

E ora la penultima domanda, quasi scontata: cosa pensi del cinema italiano?
Penso sempre la stessa cosa, cioè che siamo molto indietro rispetto agli altri Paesi. La cosa positiva è che abbiamo (credo) toccato il fondo e pian piano stiamo risalendo, con pochi alti e numerosissimi bassi (cinepanettoni, youtubers e manuali d’amore). Voci fuori dal coro, i film di Checco Zalone (che ora sto rivalutando) e il recente Jeeg Robot sembrano aprire qualche spiraglio. Personalmente ho notato una maggiore “disponibilità” da parte di tutti a collaborare, ad investire su un progetto. Ma anche lì, non tutto quel che luccica è oro! Per i cosiddetti “indipendenti” è sempre la solita solfa: zero opportunità, clientelismo, pseudocritici etc. Soltanto la passione ci fa andare avanti e bisogna essere un po’ folli.

Una domanda semplice, o forse no. Se naufragassi in un’isola, ovviamente deserta (niente zombie, niente psicopatici…) quali sono i tre film che vorresti avere. E già che ci siamo anche i tre libri.
Film: Eraserhead di David Lynch, Der Todesking di Jörg Buttgereit e Dead Man’s Shoes di Shane Meadows. Il mio stile ha molto attinto dal loro immaginario. Andando per ordine:

il concetto di “gabbia”, quella che ogni giorno ci costruiamo intorno spesso in modo inconsapevole (come l’alienato Henry Spencer che abita in un appartamento situato in una squallida zona industriale dove i muri sono così alti da non permetterci di vedere il cielo).

attribuire sempre agli oggetti un significato personale. Ho ancora impresso nella mente il ponte dei suicidi che il regista descrive in molteplici inquadrature mentre i nomi delle vittime scorrono in sovraimpressione.

Meadows, il regista del film a mio avviso caratterizza benissimo il genere umano. L’uomo è imperfetto e agisce secondo il proprio metro di giudizio. Caratterizzare i personaggi significa scavare a fondo senza pregiudizi e categorie.

E i libri?
L’isola di cemento di J. G. Ballards, La lunga marcia di Stephen King (perché mi piacerebbe trasporlo in film, e sull’isola avrei sicuramente il tempo di rileggerlo per bene) e infine L’occhio del regista di Laurent Tirard (lo sto finendo di leggere ed è molto interessante).

Interessanti, dobbiamo andare a curiosare. Ora moriamo dalla voglia di vedere il tuo ultimo corto, magari tornerai qui a parlarcene.
Volentieri! Intanto, se volete saperne di più, sulla nostra pagina Facebook (correte subito a metterci un like!) troverete tutti gli aggiornamenti: https://www.facebook.com/MammaRacconta .

Corriamo!

 

 

[intervista disponibile su: https://www.crunched.it/ascoltare/discorsi/177-intervista-a-luca-alessandro.html]